L'ODIO PROVOCATO

Da un complessivo bilancio della lettura de Nazionalsocialismo e società segrete e per ciò che in linea di principio se ne è potuto dedurre, la riflessione meriterebbe ancora qualche dettaglio, qualche spunto ulteriore.

E proprio partendo dal teorema, se così lo si può chiamare, enunciato dal prof. Giorgio Galli, il quale ci dice come a primo conflitto mondiale concluso, l’inganno britannico nei confronti della Germania, mise poi le classi dirigenti tedesche nelle condizioni di trovare un contrappeso alla crisi economica dovuta a quelle stesse “promesse mancate” (come di un qualcosa che la Germania perdendo avrebbe ottenuto in cambio) in coincidenza dunque di un comunismo, che come scelta di campo da parte di quei poteri illuminati avrebbe dovuto divampare in tutta Europa e non solo (e sebbene dalla Gran Bretagna alcune classi dirigenti conservatrici, a seguito di ciò, sostanzialmente vollero e crearono il fascismo italiano).

Contrappeso che, come si può ben immaginare, si rivelò con la scelta del partito nazionalsocialista tedesco al potere, per risolvere l’annosa suddetta questione, e risollevare la nazione soprattutto in termini economici.

Così come per un’Italia vincitrice nel conflitto, gli inglesi, nel complesso, non avrebbero mai corrisposto alle promesse fatte nei confronti di una Germania che “vinceva perdendo”, per il semplice motivo che quel conflitto mondiale non avrebbe avuto senso farlo, se poi di lì fino al Caucaso, al Medio Oriente e anche oltre, si fosse lasciata in vita una temibile Germania erede del suo stesso imperialismo, che di quelle zone fino al giorno prima ne controllava destini e risorse.

In ciò si spiega perché il nazionalsocialismo non si fidò mai nel fare il condominio d’Europa con la Gran Bretagna (e nonostante le accennate correnti conservatrici britanniche avessero preso già il sopravvento, concedendo all’Italia, oltreché la presa sui territori promessi nel dopoguerra, anche quella di alcune colonie in Africa) ma non si spiega perché non si preoccupò di riprendersi anzitutto quelle zone - Caucaso, Medio Oriente e oltre - che fino allo scoppio del primo conflitto mondiale le appartenevano, imbevendosi invece di dottrine razziali, in particolar modo anti-giudaiche e anti-slave, nonostante le classi dirigenti che gli permisero di imporsi avessero, fin lì, considerato l’opera già compiuta (in termini di ripresa economica, rioccupazione ecc.).

L’epilogo a tutto ciò, fu niente meno che guerra fredda, democrazie a sovranità limitata sotto l’egida anglo-americana (e qualunque ne fosse la sfumatura ideologica) e il fattore “campi di lavoro o di concentramento” che altro non divenne che opportunità di accelerazione per uno Stato ebraico nel bel mezzo delle emergenti nazioni del Medio Oriente.

Ché gli aiuti atti a far si che si potesse instaurare e riconoscere uno Stato ebraico in Palestina, possano aver d’improvviso - in una zona fino a quel momento piuttosto trascurata - acceso le ire per una reazione di parte opposta, non tiene sufficientemente conto della spinta propulsiva che non poco ha giocato in entrambe le popolazioni coinvolte: da una parte abbiamo un popolo, un’etnia, quella ebraica, preda di pluridecennali persecuzioni, che oltre al fatto di sentirsi danneggiata o strumentalizzata da certo internazionalismo illuministico dei suoi “fratelli maggiori” (e in termini di potere effettivo) sentiva l’esigenza di avere uno Stato da ben prima dei conflitti mondiali, questo per via di un crisma proprio, che in fondo non si discosta e non si è mai discostato troppo dal corrispettivo europeo e occidentale (e come detto a prescindere da oggettive ingerenze separatorie).

Questo suo spirito, questa sua qualità, incontrarono soltanto l’inconveniente di non possedere una terra, un confine, uno spazio ben delineato per esprimersi al meglio, senza quindi dover necessariamente risultare disturbanti, o al più apparire come il risultato di atteggiamenti camaleontici cui diffidare.

Dall’altra, di popolo, abbiamo quello palestinese, che certamente non aveva avuto le stesse esigenze e lo stesso trascorso di quello ebraico, e che rimasto fin lì a osservare, in fin dei conti non soffrì tanto di quelli che lentamente diventavano i suoi nemici, quanto delle alleanze che esso a confronto non ebbe (per un presunto antisemitismo comunque, dal ‘36 al ‘47 del secolo scorso il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, si rifiutò sempre di legittimare uno Stato palestinese a densità maggiore del corrispettivo ebraico).

Ma anche il popolo palestinese, nel tempo, dai suoi vicini ottenne aiuti, alleanze, che già in sé includevano il riconoscimento di un’istanza.

Che in fin dei conti potremmo però tradurre come l’ennesima strumentalizzazione di un popolo a danno di un altro, per cui siamo a un giocare alla guerra, anche quando alcune concessioni sono state fatte, alcune ire “da meno” palestinesi placate, i restanti Stati arabi disposti a sorvolare nel nome di una sinergia spiccatamente finanziaria, ché a rimetterci sono al solito le popolazioni inermi, le genti vittime di un gioco più grande di loro, in alcuni casi sempre più difficile da disinnescare.